Prendiamo spunto dai recenti casi di Stefano Agostini, Patrick Facchini, Ilaria Sanguineti e per ultimo quello che sta coinvolgendo Diego Ulissi per riflettere sulla giustizia sportiva che opera nel mondo del ciclismo.

È evidente che qualcosa non funziona. Ai ciclisti professionisti è richiesto di comportarsi come tali a tutti gli effetti e, per loro stessa volontà, sono sottoposti a innumerevoli controlli antidoping in gara e fuori gara. Se i protagonisti del mondo delle due ruote sono i primi a voler combattere questa piaga e a finanziare la lotta al doping è vero anche che in caso di positività sono i soggetti che obiettivamente pagano di più l’errore commesso e troppo spesso nelle maglie dell’antidoping rimangono incastrati ragazzi che commettono leggerezze.

Se per i primi tre ragazzi citati l’UCI ha convenuto che si trattasse di un’assunzione non mirata alla frode sportiva ma li ha comunque puniti duramente, per Ulissi il caso è ancora in corso quindi non possiamo esprimerci, se non valutando le lungaggini e le modaità della giustizia che sta sì facendo il suo corso ma troppo lentamente.

Il presidente dell’Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani (ACCPI) Cristian Salvato al riguardo commenta: «La giustizia sportiva deve avere altri tempi, altri approcci, altre attenzioni. Chi commette un grave errore va punito, è lo stesso gruppo a non sopportare più certe scorciatoie che danneggiano l’immagine della categoria, ma ogni atleta merita di poter difendersi e poter eventualmente tornare a correre in tempi ragionevoli. Chi sbaglia va fermato, subito. Chi merita di correre e rispetta le regole deve poter gareggiare. Il comportamento autolesionista mostrato dalla nostra giustizia sportiva con questi ragazzi fa male all’intero movimento. Il ciclismo in materia antidoping è sempre stato all’avanguardia rispetto agli altri sport, vedi quanto sta emergendo nell’atletica, e deve continuare a primeggiare in questo settore confermandosi un esempio da seguire».

Giulia De Maio

Ufficio stampa ACCPI