Alla scoperta delle tradizioni sacre e profane
Il lungo weekend pasquale è alle porte: per tutte le persone che hanno bisogno di rilassarsi, riempirsi i polmoni di aria pulita e gli occhi di viste spettacolari, scoprire luoghi sorprendenti e fuori dal tempo, le Dolomiti Bellunesi sono la meta ideale. Qui non ci sono orde di turisti con cui condividere l’esperienza dell’enrosadira – il fenomeno per cui, all’alba e al tramonto, le crode delle Dolomiti si colorano di rosa-rosso – perché il più delle volte, a scegliere i giusti angolini di paradiso, capita di potersela godere completamente (o quasi) in solitaria. La Pasqua in montagna è però la risposta giusta anche per chi, oltre alle camminate contemplative, non disdegna incontrare qualche locale, capire qualcosina della cultura dei luoghi che sta attraversando, fare festa… Per questi viaggiatori, la Pasqua sulle Dolomiti comincia un po’ prima, a inizio aprile, e ha il suono acuto dei fischietti e quello martellante dei tamburi.

Per questa Pasqua bellunese, vi portiamo alla Sagra dei fisciòt e alla Passione vivente sul Vajont.
La sagra dei fisciòt. Due domeniche prima di Pasqua, a Belluno, c’è la sagra dei fisciòt. Ovvero, la sagra: solamente la festa del patrono, San Martino, tiene il passo rispetto all’appuntamento più atteso da generazioni di bellunesi. La domenica della sagra – quest’anno è il 2 aprile – la piazza principale della città, Piazza dei Martiri, si riempie di bancarelle di ogni genere, dal cibo agli oggetti di artigianato alle cianfrusaglie, e si riempie di gente. Alla sagra ci vanno tutti, non solo i bellunesi, e affollano le vie del centro storico su su fin quasi in stazione, mentre nell’aria si sparge l’odore dello zucchero filato e quello del pastin, e risuona il fischio acuto dei fisciòt. Sebbene siano sempre meno i protagonisti della festa, di fisciòt se ne trovano ancora, con un po’ di fortuna: sono dei fischietti di metallo (oggi) che si infilano tra lingua e palato e sibilano un suono acuto, che un tempo veniva usato come richiamo per gli uccelli selvatici.
La sagra dei fisciòt saluta la primavera con una festa all’aperto, ma è a dire il vero anche il giorno in cui si celebra la festa per la devozione alla Vergine dei dolori. Alle 4 del pomeriggio, quando le strade e le piazze di Belluno sono belle stipate di gente, parte dalla bella chiesa di Santo Stefano la processione sacra che segue la Madonna Addolorata lungo le vie cittadine. La Madonna in questione, con il cuore trafitto da sette spade (i sette dolori), venne portata per la prima volta in processione nel 1716, per festeggiare la fine di una pestilenza. Nel 1948 venne portata in processione fasciata della bandiera tricolore – si festeggiava la Liberazione – e con aumentato fervore, rispetto a decenni prima, perché qualche tempo prima era stata protagonista di un (forse) miracolo: quando gli Austriaci se ne andarono per sempre dalla Valbelluna, tentarono di portare con sé anche la Madonna, ma i buoi che la trasportavano, dopo pochi metri dalla chiesa di Santo Stefano si inginocchiarono e si rifiutarono di proseguire, costringendo gli Austriaci ad abbandonare il maltolto…

La Passione di Erto. Anche se ci si deve spostare qualche decina di metri più in là, rispetto al Bellunese, c’è un’altra processione che vale davvero la pena seguire, ai piedi delle Dolomiti (Bellunesi e Friulane). È la processione del venerdì santo che tutti gli anni va in scena a Erto. Erto è un minuscolo paese resistente di sassi, che se ne sta appollaiato a un costone d’erba sopra il lago di Vajont, e al cospetto dell’agghiacciante frana che una notte del ’63, cadendo nel lago allora stracolmo, generò l’ondata che rase al suolo il tristemente famoso paese di Longarone. Erto è ben più in su, rispetto a Longarone, oltre la diga di compatto cemento grigio, tra prati, boschi e valli silenziosissime, verdi e selvagge. Il paese in sé è già meraviglioso, e ha una straordinaria storia di resilienza, orgoglio e testardaggine: dopo il disastro del Vajont doveva venire svuotato insieme al lago, ma ci fu chi resistette, nonostante i molti disagi, e c’è chi ancora resiste per mantenere vivo questo accrocchio di case di sassi, osterie e strade molto molto ripide. Se a Erto vale la pena andarci sempre, vale anche di più la pena andarci la sera di Venerdì Santo, che quest’anno cade il 14 aprile, per assistere a una tradizione popolare antichissima, che risale addirittura al Seicento.

Il rito del venerdì santo a Erto è composto di due parti, una religiosa – la processione che parte dalla chiesa di san Bartolomeo Apostolo, in centro, e si snoda attraverso le viuzze della città sulla scorta di un magnifico crocifisso ligneo di Andrea Brustolon – e una laica, I Cagnudei, che inizia al calare della sera, di solito di fronte al Comune, e si inscena alla luce delle fiaccole, ritmata dal rullo dei tamburi. I Cagnudei sono la rappresentazione in costume della passione e morte del Cristo. Protagonisti della messa in scena sono gli abitanti di Erto (o comunque, ertani d’origine): oltre 50 attori fanno i Cagnudei – i Giudei, cioè – e accompagnano Gesù di scena in scena fino al Calvario. La crocifissione avviene poco fuori dall’abitato, nel buio, ed è davvero suggestiva ed emozionante. Gli attori ertani si preparano tutto l’anno, e c’è chi fa da decine d’anni lo stesso personaggio. La rappresentazione esiste da tempo immemore: pare sia nata nel Seicento, come voto degli abitanti per scongiurare l’epidemia micidiale della peste nera, che in quegli anni flagellava Venezia e i suoi domini. Nel 1946 l’autorità ecclesiastica decise di escludere dalla processione del Venerdì Santo la sacra rappresentazione, troppo laica. La rappresentazione però non si è mai fermata – un voto è un voto! – se non negli anni durissimi del dopo Vajont. Ma è ripresa già nel 1968, e da allora va in scena ogni anno, (quasi) come nel Seicento.

AIT DOLOMITI